sabato 25 ottobre 2008

Atto di rivolta

Prologo. Ho barato. Questo non è un vero e proprio post su “Riot Act”, o meglio, non solo.
La recensione del settimo album in studio dei Pearl Jam, scritta e pubblicata a suo tempo, è il pretesto per raccontare una brevissima storia.
Con queste poche righe, infatti, intendo rendere tributo all’opera realizzata da coloro che hanno dedicato lunga parte del proprio cammino a qualcosa che oggi - nell’epoca del “tutto, subito e magari nel computer” - risulta incomprensibile.

Esistevano un bel po' di tempo fa delle pubblicazioni periodiche monotematiche, incentrate sul lavoro di un determinato artista o gruppo. Non si trovavano in edicola e avevano un singolare appellativo: “fanzine” (termine nato dalla commistione dei vocaboli inglesi “fan” e “magazine”). Quando affermo “un po’ di tempo fa”, intendo nell’era che precede l’avvento della rete, quando gestire una fanzine significava sacrificare tempo e soldi per un progetto destinato ad esclusivo uso e consumo di aficionados e che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe rimasto di nicchia. Qui mi riferisco esclusivamente a quelle musicali (ne esistevano a bizzeffe e per ogni argomento).
Fino a dieci anni fa era l’unico strumento fruibile dai fans più puntigliosi per ampliare le conoscenze circa il passato del proprio idolo, ed era il solo mezzo di comunicazione per avere accesso alle ultime (più o meno) news.
Ovviamente non scarseggiavano le rogne per il curatore che doveva aggiornarsi continuamente tramite la raccolta di informazioni (possibilmente attendibili) sull'artista, doveva reperire interviste da tradurre (dai giornali esteri, quindi, in lingua estera se l'artista era straniero), doveva recensire gli albums, doveva ricercare foto nuove, e chissà di quanti altri oneri doveva farsi carico.
Era fondamentale, poi, impaginare il tutto in modo degno, stampare, autofinanziarsi (attraverso la raccolta di abbonamenti) e inviare per posta il giornale a tutti gl'iscritti. Occorre ricordare inoltre, che l’unico strumento di “marketing” - dettaglio non di poco conto - era il tam-tam tra i fans!
Un lavoraccio assolutamente “casalingo” ma genuino, perché fatto per pura passione a guadagno zero.
Oggi tutto questo non ha più alcun senso (o forse no?): le informazioni, le interviste, sono facilmente reperibili tramite internet per mezzo delle mailing lists, delle webzines, dei blogs, et simili (i “killers” delle fanzines).
Non è un caso se alcune riviste specializzate sono diventate (non a torto) storiche, e oggi, si trovano solo sul sito delle aste online “eBay” spesso a prezzi inaccessibili.

Cito su tutte, due fanzines particolarmente curate che, da devoto lettore, ho avuto modo di conoscere bene.
A stagliarsi tra tutte quelle esistenti negli ’80 e ’90, a detenere i contenuti di maggiore qualità, a presentarsi ai nostri occhi con un’impaginazione che all’epoca era assolutamente lussuosa e all’avanguardia e, soprattutto, ad allegare il mitico CD live, era solo l’insostituibile ed imperdibile "Follow That Dream".
Se eri fan di Springsteen DOVEVI averla! Oggi il suo creatore, Ermanno Labianca, oltre a scrivere libri, a collaborare con riviste musicali, ecc., tiene il suo blog da da queste parti.
Quelle che ho potuto acquistare all’epoca della pubblicazione, sono gelosamente custodite nel loro scrigno insieme ad un mucchio di ricordi di quel tempo e, garantisco, è una gioia maneggiarle, sfogliarle, rileggerle dopo anni.
Un po’ come i vecchi vinili. Come? I dischi a microsolco? Esistono ancora? Nell’epoca del digital download? Sì e … al diavolo, stanno prepotentemente tornando sul mercato!
Anzi come Ed Vedder urlava in tempi non sospetti “Spin the black circle!” (“la copertina di cartone/ Oh, che gioia ... solo tu [disco, ndr] sei degno di vanità”).
Sì! E’ così che ti senti a mettere sul giradischi un vinile o a prendere in mano un vecchio pezzo di carta spruzzato d’inchiostro. Vallo a spiegare a chi ha il pc pieno di “mp3” e “jpg”!
A titolo personale poi, non posso che spendere parole affettuose anche per un’altra fanzine.
Mi riferisco a “Madreperla”: ne sono stato regolarmente iscritto per tutta la sua “vita su carta” (1997-2004). Era egregiamente gestita da Valeria che oggi, principalmente, si occupa dell'organizzazione di eventi di una certa portata.
Proprio lei mi chiese di poter pubblicare nel 2002, una mia recensione su Rioct Act.
Quel disco mi ha lasciato interdetto. Perché? Beh, c'è scritto nell'articolo comparso sul n. 17 di Madreperla! Lo ripropongo qui sotto anche se ... va preso per quello che è: il primo tentativo di recensione, totalmente naïf (molto più degli altri qui presenti!) ed imperfetto. Ma proprio per questo ci tengo a replicarlo nella sua originaria versione.
Lasciandoci alle spalle le belle copertine, il vinile, le foto, le fanzines e quant’altro abbiamo ridotto tutto all'osso. Mi chiedo: oggi, tutto deve necessariamente essere miniaturizzato e/o impalpabile? Diamine! In questo tipo di malsana evoluzione si è perso il gusto dell’attesa, la bramosia del vedere oltre che del toccare: un handicap per buona parte dei sensi. Salomè, insomma, senza il sensuale prologo della danza che porta l’abbandono dei suoi sette veli.
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Riot Act, Pearl Jam (2002) - Anche l'occhio vuole la sua parte e, come ormai succede da Vitalogy ('94), i sapienti Pearl Jam pubblicano l'ultimo lavoro in una confezione cartonata ben curata, contenente foto in studio di registrazione, disegni e l'elaborazione dei testi scritti di pugno o con la vecchia macchina di Ed.
La cover foto riproduce una scultura, tutt'altro che allegra, appositamente commissionata dai ragazzi ad un'artista amica di Seattle, tale Kelly Gilliam. La scultura è metaforicamente riferita ad una vecchia legge, in parte simile ad una approvata di recente negli States, molto restrittiva, ma il tutto è molto contorto: meglio lasciar perdere, in questo caso, e pensare alla musica.
Dedicato agli scomparsi John Entwistle (bassista negli Who) Dee Dee Ramone (bassista nei Ramones) e a Ray Brown (?), l'album, risulta al primo ascolto ... "diverso". Per i miei gusti è a tratti troppo soft ed "elettronico" (non per gli strumenti, ma per gli effetti delle chitarre, vedi You Are) e, a volte - qui rischio la pelle - banale nei riff strumentali e nei testi - aiuto! - .
Insomma sembrerebbe un po' troppo commerciale, visto che mancano le schitarrate dei bei tempi, penso ad Alive, Rearviewmirror, Last Exit, Hail hail, Brain of J, e ad i testi taglienti di Jeremy, Daughter e Immortality, giusto per citare qualche capolavoro. In Riot Act mancano la verve di Mike e la genialità di Stone, Jeff è meno originale del solito e per piacere, fate stare seduto e zitto Matt a fare i compiti per casa. Dopo un più maturo ascolto, però, risulta chiaro come il gruppo stia seguendo un percorso iniziato da molto tempo.
C'è un filo conduttore che lega tutti gli album realizzati da Ten a Riot Act, sia pure con mille dettagli differenti.
Tra queste due incisioni sono trascorsi circa dieci anni, non una eternità, ma ne è passata di acqua sotto i ponti (nascita e morte di un movimento - il "Grunge" - mai esistito, il dramma di Cobain, la tragedia di Roskilde e molto altro) e i ragazzi, nel mezzo, sono stati assurti (o forse immolati) a nuovi dèi del rock. Le incisioni, quindi, vengono effettuate in diversi periodi storici e mutati contesti culturali, varia il substrato dove germina il seme che diventa l'LP sul nostro giradischi, vinile che lascia sgorgare dai solchi esperienze intraprese dai ragazzi in altre band (penso alla recente sortita di McCready con i Wallflowers, non proprio sullo stesso ramo dei P.J. nell'albero genealogico del rock), progetti paralleli che accrescono la cultura dei singoli musicisti (più di tutti ne ha fruito Vedder, sin dall'esordio grande come cantante, diventato in seguito bravo come musicista). E' sempre il sentimento, però, a condurre i nostri, lungo la rotta.
Insomma i ragazzi sono cresciuti e ci hanno raccontato la loro crescita: e, la crescita porta inevitabilmente dinnanzi a mille direzioni diverse e, scegliere, rimanendo "fedeli alla linea", essere coerenti (mi riferisco solo ed esclusivamente alla direzione musicale e non ideologica del gruppo) non è sempre facile, anche perchè si correrebbe il rischio di ripetersi all'infinito, vivendo sui fasti del passato. I Pearl Jam si sono rinnovati in un primo tempo con No Code ('96), e poi credo che anche Binaural abbia solcato nuovi mari (ma è stato un quasi naufragio). Voltare pagina è coraggioso ed apprezzabile. Ciò che però non mi va' a genio è la totale mancanza di epicità, così tipica nei primi tre album. Mi manca e da troppo ormai, il pezzo alla Pearl Jam, quello col marchio di fabbrica, che metti sù fino a consumare il vinile, il cd o il nastro. Quello che ti fa alzare di una tacca e un'altra un po' il livello del volume, e ti fa' rischiare lo sfratto per disturbo alla quiete pubblica. Un tempo mi arrabbiavo nel sapere che State of Love and Trust era uno scarto (!) di Ten e che God id è entrato in un misero mini-cd, senza godere di altro successo. Oggi i Pearl Jam mettono su disco composizioni che un tempo sarebbero state outtakes. Le musiche, ora, hanno un taglio diverso poichè nel line up, c'è un nuovo elemento. Nello specifico, Kenneth "Boom" Gaspar dietro le tastiere, dà più corpo al sound, ma questo, è molto spesso un limite più che un vantaggio, poichè non ritengo si sia amalgamato granchè col gruppo. Il suono delle tastiere non è stato inserito a dovere nel contesto musicale, insomma, non s'incastra ad arte con chitarre e sezione ritmica. Per esempio in Love Boat Captain, scritta pensando all'incubo di Roskilde ("Lost nine friends we'll never know ... 2 years ago today") l'organo, quando parte in primo piano, respinge l'ascoltatore, e costringe Ed ad un cantato disomogeneo. In modo parziale, anche
I Am Mine è succube del nuovo arrivato.

In tal senso una grossa mano l'avrebbe potuta dare proprio quel Brendan O'Brien, relegato al mixaggio, e che, sarebbe stato più prezioso anche in qualità di produttore, soprattutto dopo
l'esperienza vissuta con Bruce Springsteen (ha prodotto The Rising, in assoluto il miglior album del 2002, e non temo smentita) che ha una band dove convivono tre chitarre, ben due tastiere (generalmente proprio l'organo Hammond B3 ed il pianoforte) ed un sax insieme al resto della band, la precisa e martellante sezione ritmica della E Street. Nella vecchia veste, avrebbe sicuramente apportato know how alla band: peccato, sarà per il prossimo disco (Riot Act è prodotto da un professionista di tutto rispetto, Adam Casper, che ultimamente ha lavorato anche per Foo Fighters e Qeens of the Stone Age con ottimi risultati).
Va' cosiderato, inoltre, un dato statistico di non poco conto: dopo alcune stagioni insieme, molte rock band "muoiono" (in ordine sparso mi vengono in mente Soundgarden, Alice in Chains, Clash) oppure l'edonismo del frontman o contrasti vari (stando alle notizie riportate dalla stampa specializzata) portano allo scioglimento del gruppo (andando un po' indietro, cito i Beatles, poi i Police e, ahimè solo "ieri" i Rage Against The Machine, ...).
Ed, Stone, Mike e Jeff, sono ancora lì (mi sarebbe piaciuto poter ancora annoverare tra questi nomi Dave Abruzzese, a mio avviso il drummer che più di tutti sembrava nato per il Pearl Jam sound): questa è la loro forza.
Suppongo che dopo ore di registrazione in sala e svariati tour, si crei un'intesa eccezionale, suppongo che dopo tanti anni insieme, si parta in quarta per la preparazione del nuovo album, suppongo si diventi una famiglia (e non sempre è un bene perchè si perde un po' di furore), oppure mentono alla grande e ci fanno credere che è tutto rose, fiori e chitarre (bisogna pensarle tutte quando si "alza" una grossa mole di denaro: tutti chi più chi meno, ne sappiamo qualcosa).

Forse proprio per "rinnovare un po' l'ambiente" e dare nuovo impulso alle composizioni hanno invitato il capelluto tastierista.
Fortunatamente è la vena polemica ancora a trasparire dai solchi del disco, oggi come ieri. Sono ancora lì a puntare il dito: un tempo contro coppie che non hanno preso la patente da genitore, pronti ad ingabbiare i "ratti", denunciare i "dissidenti", contro lo showbiz (No video, thanks!), contro chi vieta il diritto all'aborto, contro le molestie alle donne, contro i maltrattamenti nei confronti degli animali, contro chi detiene un monopolio, Tiketmaster e Microsoft (a tal proposito che farebbero a Berlusconi, se fossero italiani?), pronti a sposare la causa tibetana e a sostenere le vittime di quel dannato 11 settembre. Bravi, davvero, anche e soprattutto nello schernire apertamente il presidente degli U.S.A. (per quel poco che ho capito, un burattino nelle mani delle lobbi americane) e a dirgli, in più di un brano, come la pensano sulle sue gratuite idee bellicose. Help help, per esempio, mi ha favorevolmente colpito. Musicalmente non funziona molto, ma contiene forse i versi più belli ed attuali di tutto l'album. Ed canta nel testo scritto da Jeff: "The man they call my enemy, I've seen his eyes/ He looks just like me, a mirror/ The more you read, we've been deceived/ Everyday it becomes clearer" ed ancora "Not my enemy ... no, not my enemy/ Don't speak for me". Sono versi che sposano le mie idee.
Credo che Riot Act pur non convincendo, sia un buon album, assolutamente da non ritenersi il migliore della produzione Pearl Jam (nella mia personalissima classifica non arriva sul podio), ma di sicuro da collocare tra i migliori del 2002.
In conclusione, sintetizzerei con un voto il lavoro del gruppo, ma lo tengo per me, perchè odio i professori ed io non voglio giudicare come solo loro fanno: dando i numeri!

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Epilogo. Intanto ho scoperto chi è Ray Brown: è un musicista jazz, virtuoso del contrabbasso. Anche lui ha lasciato questo mondo nel 2002. Era sposato con la "First Lady Of Song" Ella Fitzgerald (1917-1996). Alla notizia del terzo bassista morto in un anno, suppongo che Jeff Ament abbia fatto scongiuri come non mai!


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venerdì 24 ottobre 2008

Fuck you too, lady!

The Hives
Bari, 23 agosto 2008 - Parco Perotti
(“L’acqua in testa” Free Music Festival)


E’ una smorfia tra lo strabiliato e lo scettico, quella che nasce involontaria sul mio volto quando apprendo la novità: gratis a Bari, The Hives.
Ora, in una proposizione in cui tutto ha l’apparenza di una palese contraddizione in termini, pare farsesco leggere insieme alla parola che significa “senza alcuna spesa”, il nome del capoluogo pugliese abbinato al gruppo scandinavo.
Fortunatamente è tutto vero e, a volte, pare proprio che le vie del Rock siano infinite.
Un nanosecondo dopo l’acquisizione della notizia, ovviamente, sono già pronto ad essere della partita.

Flashback: la prima volta che ho visto in azione il complesso è stato 4 o 5 anni fa.
Derelitto sul divano, stavo facendo zapping notturno, quando … bang! Su MTV, durante un programma che tutt’oggi ignoro, vedo una saltellante Christine Dunst (l’attrice) presentare con inarrivabile espressione giuliva (se divento una rockstar, voglio essere presentato tal quale!) una band che subito attacca un Rock’n’Roll d’altri tempi. Anche le loro “divise” sono di un’altra epoca: come i Beatles del primo periodo, tutti indossano stesse scarpe, stessi abiti. Il pezzo mi piace un sacco, il piglio pure. In seguito mi documento e mi appassiono.

Torno all’estate appena consumata.
Sono a Bari. Causa vacanze, la città è ancora semi deserta e, nella riqualificata zona antistante il litorale dove un tempo sorgeva l’ecomostro di Punta Perotti, accorrono circa 5.000 scatenati fans. Insieme a due compagni di ventura (uno è l’autore delle fantastiche foto pubblicate in questo post) giungo nell’area allestita per il festival con largo anticipo. Porto una maglietta springsteeniana dall’implicito (ritengo io, e solo io) messaggio: sono più vecchio e più tosto di voi, quindi, fate i bravi! Pura illusione. Lo verifico appena ostili cloni di Marilyn Manson mi accerchiano.
Alla presenza di ragazzetti imberbi ben al di sotto della mia età, con un certo imbarazzo - che grazie alla coinvolgente esibizione tenderà ad annularsi entro i primi 5 minuti - mi arpiono alla transenna sotto il palco.

Mi sistemo proprio davanti alla postazione del “folle” chitarrista Nicholaus Arson (all’anagrafe Niklas Almqvist), fratello dell’altrettanto eccentrico cantante Howlin' Pelle Almqvist (Per Almqvist). A quest’ultimo spetta il compito di enunciare il dettame per la serata, “The Hives make music, Bari makes noise!” e l’incarico di verificarne la comprensione da parte nostra, con l’eloquente intercalare barese “Capisc’?”.
Agghindati con abiti neri e scarpe bianche, l’iperattivo quintetto svedese monopolizza da subito l’attenzione del pubblico. La performance, infatti, è a base di musica a metà tra Rock And Roll classico e Punk. Senza indugi su singoli virtuosismi, le chitarre suonano esclusivamente riff a tutto spiano, la batteria fa baccano, il basso occupa gli spazi vuoti e il frontman si sgola ed ammicca.

Ecco servito un perfetto Rock Show, asciutto per essenzialità musicale, arricchito (e non diluito) da acrobazie compiute con microfoni che si librano in aria, chitarre che volteggiano a rischio schianto ed una profusa elargizione, in platea, di plettri per chitarra e bacchette da batteria. La ricetta è semplice quanto gustosa. Quella che incisa su disco può sembrare una noiosa formula routinaria, nella dimensione live si rivela un strategia vincente: la pietra angolare del gruppo sta nell’assenza di particolari artifici sonori, nella semplicità della struttura musicale concepita dal gruppo.

Ma c’è sempre qualcuno che presenzia ai concerti per dar fastidio: una piccola sceneggiata viene rappresentata da una seccante ragazzetta in prima fila.
Questa detestabile ubriaca molesta, capelli di stoppa e trucco da passeggiatrice, prova ad attirare su di sé ed in ogni modo l’attenzione del vocalist. Con gesto repentino si leva il reggiseno, conservando indosso la maglia (tecnicamente sto ancora cercando di capire la dinamica del gesto!) e lo lancia ai piedi del cantante. Ma nulla accade: Pelle è concentrato nel suo lavoro. Poi scaglia una bottiglia in plastica ancora piena di un liquore che a vedersi sembra whiskey, a ridosso del singer. Anche qui nulla, ma all’ennesimo gesto di maleducazione – il classico e scontato dito medio – Pelle dimentica di essere un imperturbabile gentleman del freddo nord Europa e risponde in maniera analoga, accompagnando il suo gesto con un “Hey! Fuck you too, lady!”. Finalmente! Mi faccio una grassa risata alla faccia della Courtney Love “de noantri”.

Lo spettacolo continua e dal repertorio vengono recuperati i primi prorompenti successi quali “Hate To Say I Told You So”, "Main Offender", “Die, All Right!”, “Supply And Demand” (dal loro miglior disco Veni Vidi Vicious del 2000) e “Walk Idiot Walk” (Tyrannosaurus Hives, 2004) che si alternano ai recenti “You Got It All ... Wrong” e soprattutto l’ultimo hit “Tick Tick Boom” (entrambi da Black And White Album). I ragazzi tirano dritto senza alcuna sosta. Là fuori, stasera, c’è qualcuno propenso solo a farci divertire in totale assenza di sermoni. Gli Hives, com’è noto, non sono alfieri della “musica impegnata” ma una band godereccia apprezzabile per le ottime capacità di coinvolgimento ascrivibile al movimento “Rock da cazzeggio di qualità”; insomma il gruppo spassoso della corrente Rock. Oggi, per farla breve, si poga e basta! E la platea balla divertita.

Il loro appagante concerto conferma a pieni voti la reputazione di live band vincente.
Scendono dal palco e vengono a stringere mani nelle prime file prima di correre in aereoporto.
L’indomani li aspetta la tappa londinese del tour.
Come dire? Veni, vidi, vici, anzi … vicious!
Grazie Miss Dunst, chiamami: ti devo un favore!
Capisc’?
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GRAZIE mitico Ettore “Wonder Boy” Dicorato!
Mi sono ammaccato per farti produrre questi scatti, ma ne è valsa la pena.
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lunedì 20 ottobre 2008

My favorite listening spot

Lo stereo prende in pegno il CD appena acquistato e nel silenzio ovattato dell’abitacolo dell’automobile, i diffusori mandano le note di un’ipnotica musica.
Seduto dietro il volante, assorto in un’altra dimensione, lo sguardo è perso oltre il parabrezza e l’udito è teso a raccogliere il passaggio dalla tranquilla e breve “Master/ Slave” alla feroce “Once”.

Ritengo il primo ascolto di una nuova uscita discografica molto importante, non determinante ma importante.
Per farlo a dovere, in primis serve un posto adeguato, poi l’arco temporale necessario, i testi ben in vista e così via.
Ma non sono il solo seguace della filosofia e dei riti legati al primo ascolto.
Il tipo nell’auto cha ha appena iniziato l’ascolto dell’album d’esordio dei Pearl Jam, infatti, non sono io.

E’ Bruce. Quel Bruce! Bruce Springsteen.
Quello con la Telecaster scheggiata a tracolla e decine di invidiabili giubbotti di pelle nel guardaroba. Quello col culo inguainato da un jeans oggetto di uno scatto fotografico poi finito sulla copertina di un album entrato in circa 20.000.000 di case sparse per il globo. Proprio quello che nonostante una “bourgeois house in the Hollywood hills” ama godersi il primo ascolto dell’ultimo CD acquistato, standosene seduto in macchina piuttosto che sprofondato in poltrona in una, che so … stanza insonorizzata situata nella sua mega tenuta. Quello che preferisce usare l’autoradio più che un (probabile) impianto stereo inaccessibile ai comuni mortali.
Già, perché certe abitudini sono dure a morire e, come Springsteen stesso scrive, è “seduto in macchina di fronte a casa il mio luogo d’ascolto preferito”.
Questo emerge da quanto riportato per l’introduzione di “5x1: Pearl Jam Through The Eye Of Lance Mercer”, un libro fotografico che documenta la vita in tour, e più in generale on the road, dei Pearl Jam.

Insieme ad altre riflessioni di illustri colleghi (Pete Townshend, Michael Stipe e Ben Harper), Bruce si è preso la briga di scrivere per questo intrigante volume, le sensazioni provate durante il primo ascolto di “Ten” (album d’esordio del gruppo di Seattle).

Stando alla narrazione della vicenda, l’episodio risale all’epoca della pubblicazione di “Ten” negli USA, cioè sul finire dell’agosto 1991.
Il body builder del NJ è già padre di Evan (luglio 1990) ed è già sposato con Patti (giugno 1991) che attende la nascita di Jessica (data alla luce nel dicembre del 1991).
Ormai attorniato da una gestante, da un marmocchio e da pappe & pannolini più che da chitarre, a questo rocker sui quaranta, lontano dalla scena musicale da un bel po’, serve una botta di vita.
E per uno cresciuto ad hamburgers e chitarre, una botta di vita non può che arrivare da buona musica.
Detto, fatto.
E’ il passaggio radiofonico di “Alive” ad invogliarlo ad acquistare “Ten”.
Anche per lui l’album si rivela una bomba i cui detonatori sono individuabili nei possenti riff delle chitarre di Stone Gossard, compositore della musica di “Alive” (che Dio, anche solo per questo, lo benedica sempre!) e agli a solo dell’indiavolato Mike McCready (lead guitar).


Ma è l’apporto determinante della straordinaria timbrica vocale di Ed Vedder a rendere “Ten” un richiamo, un’adunata, il ruggito che squarcia l’immobilismo Rock di quel periodo e riporta il movimento in auge: l’album che svariati milioni di smaniosi appassionati del genere, aspettano da tempo.
Risolutivo è anche l’apporto del bassista Jeff Ament, cofondatore della band insieme a Gossard e quello di Dave Krusen alla batteria (che però abbandona il gruppo subito dopo le sessioni d’incisione).
Costretti a smentire l’odiosa pubblicità che li imputa quale band assemblata ad arte per sfruttare la reputazione di una Seattle ormai fucina di talenti musicali, questi ragazzi fanno di tutto per risultare ciò che sono: una sola entità con cinque anime e non, elementi all’interno di un gruppo.

Lo dimostrano con una capacità non comune a tutti i gruppi. Springsteen, evidentemente affascinato, dice: “avevano l’abilità di pestare duro e di suonare “morbido” (swing) allo stesso tempo. La musica si sentiva tranquilla e potente con un mucchio di connessioni tra gli strumenti. Queste sono le qualità che inducono a sostenere che sei davanti ad una vera band”.
Anche per Bruce si tratta, quindi, di una “vera band” e non di cinque ragazzi messi sotto contratto e obbligati a lavorare tra le stesse quattro mura. Il libro di Mercer, non a caso, tende a mettere in risalto il forte vincolo tra i compagni sin da quel “5x1” scelto come titolo (avete presente la nota massima, “tutti per uno”?). Ma più di mille parole e di mille libri, è proprio la copertina di “Ten” a chiarire questo spirito di fratellanza con semplicità disarmante: basta osservarla un attimo.

Ma Bruce, mi chiedo, ascoltando questi componimenti, avrà colto tratti in comune con i suoi lavori?
Probabile. Io ci trovo una certa forza in comune. Scorgo lo stesso dannato “sacro fuoco”. La forma-canzone dei (primi) Pearl Jam e diametralmente opposta a quella del musicista del New Jersey, ma a mio avviso spicca la medesima voglia di emergere attraverso un innato stile, una naturale attitudine alla musica Rock.
“Alive”, primo singolo estratto dall’album, è uno degli episodi più epici dell’intero lavoro e della carriera dei cinque e, come racconta Vedder all’ex giornalista, oggi regista cinematografico Cameron Crow, “è fondamentalmente un inno alla vita”. Uhm, anche “Born To Run” (album e omonimo brano), si è da più fonti precisato, è epico ed è un inno alla vita!
Sempre a detta di Vedder, l’ode alla vita è presente - ma, aggiungo io, non facilmente individuabile - nelle 11 composizioni del disco; difficile da riscontrare perché le atmosfere musicali e le liriche enfatizzano una diffusa insoddisfazione della condizione esistenziale. Lo scenario entro cui si muovono i protagonisti, è quello di una nazione post Regan di cui tutto sappiamo e che fa da sfondo alle dolenti storie di ragazzi segnati da un’amara adolescenza, di figlie vessate in ogni modo, di ragazzini incompresi e costretti a chiudere in una plateale ribellione la loro esistenza …
Un paio di rapidi esempi (a rischio linciaggio per il sottoscritto) saranno utili a far comprendere cosa sto blaterando.
Il testo di “Black” (il cui titolo lascia presagire un inquietante scenario) potrebbe essere figlio di quel pensiero pessimista reso noto in letteratura dal nostrano Leopardi. “Tutto l’amore andato a male ha tinto di nero il mio mondo” e poi, “So che un giorno avrai una vita bellissima/ So che sarai una stella/ So che sarai nel cielo di qualcun altro/ Ma perché non può essere il mio?”. Tanto deprimente, quanto bella. Davvero! Una di quelle canzoni che vuoi sentire quando sei triste, sai che nulla potrà tirarti su e decidi - badile in spalla - di andare a scavare un bel buco grosso nel terreno per trovarci l’eterno riposo.
E “Jeremy”? Beh, questa è più che altro la cronaca di una tragedia annunciata (il testo è ispirato ad un fatto realmente accaduto). Potrebbe essere accostata - con opportuni “distinguo” - ai “Dolori del giovane Werther” di Goethe: in tutti e due i casi il protagonista si toglie la vita, più come atto di estrema protesta che come gesto di resa.
E dov’è allora, l’inno alla vita in tutto ciò? Nel percorso quotidiano, siamo tutti più o meno preparati se non a riprendere la corsa, a riacciuffare la nostra faticosa marcia dopo una caduta. Tra mille improperi siamo pronti a risollevarci e a recuperare il passo: siamo pronti, insomma, a rimanere vivi.
E’ quanto asserisce il protagonista di “Alive”: malgrado tutto, sono ancora vivo. Dopo le violenze, fisiche e psicologiche cui sono stato costretto, sono qui, e canto la mia vita.
Ci trovo una certa corrispondenza con il “non mollare” che chiude con un leggendario verso la “This Hard Land” di Springsteen, dove Frank che crede di non farcela, deve tenere duro e nonostante tutto, deve rimanere vivo.

Lì chiuso in macchina, nel suo luogo d’ascolto preferito, Bruce, dev’essersi sentito proprio coinvolto da quei testi carichi di tensione, di rabbia, di solitudine (storie drammatiche e personali in molti casi, autobiografia del giovane Vedder). Nell’arrembante "Even Flow", nella dolce “Oceans”, così come nella rabbiosa “Porch”. Cosa darei per conoscere a fondo quello che ha pensato nell’ascoltare “Once” e “Release”, ovvero Alfa e Omega di questo album epocale. La prima, una tempesta in piena regola, una cavalcata hard rock con la chitarra di Mike McCready sugli scudi; agli antipodi, invece, “Release” a chiudere il capitolo con una melodia dal tessuto sonoro dal grande impatto emotivo: qui insieme a tre accordi (Re – Sol – Do!) la solenne voce di Vedder è in grado di far sanguinare anche i sassi. Con la sensibilità del musicista deve aver individuato talune influenze che la “band heavy metal che piace alla gente che non ama l’heavy metal” esprime in quell’opera prima.
Come già asserito da Springsteen, infatti, il segreto che rende la band, una grande band, è presto palesato: “Ability to play hard and swing at the same time”.
Le parole scritte nero su bianco dal “Capo” offrono un altro interessante spunto di riflessione. Nella musica di questo gruppo, convivono le due anime del rock: quella scura e violenta, e, quella solare e dolce. Perché in certi brani, è bene far suonare le chitarre tanto da rompere i timpani, ed in altre, è opportuno che il suono delle corde carezzi l’udito. L’importante è capire “il quando” e “il come” dosare questi elementi. A questo punto, paragonare le doti ed (in parte) il sound dei Pearl Jam a quelli di Who e Led Zeppelin, è quanto di più straordinario e tremendamente sincero si possa fare. E lui, Bruce, ha l’onestà di farlo, menzionando due bands inglesi che hanno fatto scuola, spodestando l’egemonia nel circuito Rock dei gruppi americani (anche sul loro suolo, nell’èra della cosiddetta “British invasion”). Bands che, appunto, sapevano quando picchiare duro e quando darci dentro con la melodia. Che meraviglia: un grandissimo del Rock che paragona altri grandi del Rock ai capofila di un genere!

Quella frase finale, poi, “sono uscito dall’auto sentendo che avevo del lavoro da svolgere”, per me, è illuminante sull’effetto prodotto su Springsteen dal primo ascolto di “Ten”.
Pare l’ammissione del maestro che questa volta, complice l’occasione fornita dall’allievo, si rimbocca le maniche e si accinge a compiere il proprio “dovere”.
Grande!

La chiudo qui.
“Ten” è finito sulla stessa ipnotica musica “Master/ Slave” di apertura. L’autoradio restituisce il CD e Bruce esce dal suo “punto d’ascolto preferito” con la testa piena zeppa di spunti pronti ad essere concretizzati nella piccola sala d’incisione allestita nella sua villa, ma … “Bruuuuuuce!”, Patti lo chiama perché richiede aiuto per non meglio precisate commissioni domestiche. Ecco come l’ispirazione fornita dal disco dei ‘Jam, svanirà e non sortirà più alcun effetto.
Dài scherzo!

Pubblicato anche su "badlands.it"


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venerdì 17 ottobre 2008

All sound made by guitar, bass, drums & vocals

Rage Against The Machine
Modena, 14 giugno 2008 - Stadio Comunale A. Braglia


Solo poche meritevoli bands si fregiano di un titolo onorifico.
La E Street Band di Bruce Springsteen, per esempio, è propriamente detta “la Leggendaria”, i Clash “The Only Band That Mattered”, i Rage Against The Machine, invece, sono più semplicemente il gruppo cui “tutti i suoni sono prodotti con chitarra, basso, batteria e voci”.
Tale precisazione, d’obbligo, è presente nel booklet di ogni loro disco, ma è nella dimensione live che è possibile constatarne l’assoluta veridicità.
Fischi, tonfi, boati, scratchs e altri suoni normalmente prodotti da campionatori, vengono generati da Tom Morello, l’ultimo rivoluzionario della chitarra rock che, braccato da Tim Commerford (al basso) e Brad Wilk (alla batteria) si scaglia in fantasiose quanto grintose volate chitarristiche.
Morello divide l’avanguardia dello stage con l’altra figura carismatica del gruppo, Zack De La Rocha, il vocalist dal nome cazzuto (per dirlo alla maniera di Natalie Portman in “Léon”).

L’attesa per assistere al live act italiano, dura da ben otto interminabili anni

e, davvero poca fortuna hanno i due gruppi deputati ad aprire la serata.
Gli italiani Linea 77 si dannano sul palco ancora soleggiato, ma non riescono a sortire l’effetto che, al contrario, otterrebbero in una location più ridotta, magari indoor. Hanno comunque il loro seguito tra gli astanti e lasciano lo stage tra applausi composti.
Lo stadio Braglia di Modena, non è ancora tutto esaurito quando i giovanissimi inglesi Gallows, calcano la scena. L’inclemente platea li castiga, in primis con ingiurie a vario titolo e gesti di dissenso (per usare un paio di eufemismi), poi, per offrire un servizio completo, con sputi e lancio di oggetti. Terminano la performance a base di evanescente metal, orfani del loro emaciato e tatuato mezzo cantante, dopo che questi ha dissimulato una masturbazione (!). I ragazzetti, al pari dei Linea 77, s’impegnano ma l’antipatia tra noi e loro è immediata e reciproca. Bocciati senz’appello.

Il palco è un vero e proprio campo di battaglia, ora.

Lo stadio con i suoi 20.000 presenti, è sold out (o quasi) e l’attesa cresce.
E’ tutto pronto per il grande e sospirato ritorno.
La musica registrata, un “walk in” di tutto rispetto in cui spiccano la versione originale di “Fuck Tha Police” e la “Sabotage” dei precursori Beastie Boys, viene interrotta.
Nel buio più totale gli amplificatori mandano un opprimente suono di sirena, un’allarme, quello che si lancia per avvisare la popolazione di un imminente attacco aereo. L’effetto è suggestivo, mi angoscia anche se sono sicuro di assistere ad un artificio. I quattro musicisti entrano sul palco “scortati” in fila indiana da roadies/carcerieri. Indossano le stesse "tute arancioni" che vestono i prigionieri detenuti nella prigione statunitense della Baia di Guantanamo e, come loro, sono incappucciati. Il magniloquente metodo scelto per la protesta, rievoca quanto fatto 15 anni prima sul palco del festival itinerante di Lollapaloza. All’epoca rimasero (integralmente) nudi, immobili per un quarto d’ora con la bocca chiusa da nastro adesivo, innanzi ad un pubblico prima disorientato e poi infastidito. L’insolita protesta mirava a disapprovare i feroci criteri di censura americani adottati nei confronti delle liriche in musica.
Così abbigliati, vengono liberati dalle manette e “vestiti” dei loro strumenti. Suoneranno quindi, ad occhi chiusi, eseguendo in apertura una micidiale Bombtrack. La scelta di questo brano, sembra ricondurre ad un nuovo inizio; questo è, infatti, il primo pezzo del loro album d’esordio pubblicato nel 1992. L’esecuzione risulta semplicemente perfetta. Ineccepibile risulta pure il feeling che unisce i quattro musicisti. Siamo euforici per aver ritrovato dei compagni lontani da troppo tempo. E’ guerra, anzi “guerrilla”.

Sferrano l’attacco: sono tornati per dare battaglia all’ “Impero del Male” nei panni dei prigionieri di Guantanamo. Dopo l’esecuzione del brano, escono da quei “pesanti” panni, espiando (metaforicamente) tutti i supposti peccati di coloro che rappresentano. Nessuno – vado a memoria – nel vasto panorama rock ha accusato con tale forza le istituzioni americane. Ed Vedder dei Pearl Jam indossa la maschera di George W. Bush e lo schernisce in pubblico, individuando nella sua persona il terminale ultimo da accusare per quanto accaduto in questi ultimi otto dissennati anni quanto a politica estera. I Rage Against The Machine, al contrario, esaminano più a fondo lo scenario. Puntano l’indice verso l’intero sistema. I prigionieri che impersonano rappresentano delle esche. Esche che coprono l’amo gettato a mare da un perverso pescatore: il “Sistema”, appunto. Questi è la macchina contro cui riversare tutta la rabbia. Il Sistema delle multinazionali, quello delle lobby, quello della politica neoliberista che, con ambigue strategie indirizza l’opinione pubblica in proprio favore, per trarne ricchezza, potere e governo. Costi quel che costi, in termini umani ed economici. Stando a quanto ammonisce Zack, l’attuale presidente degli USA “è un criminale da giudicare in tribunale” anche se è una pedina sullo scacchiere e nulla più. Ah, ovvio, i pesci siamo noi, la gente. L’umanità che abbocca indulgente alla preda-cibo che, pare solo un pasto facile e sicuro ma che, nasconde ben altro.
Il tour non promuove un nuovo album, quindi, si susseguono i passati successi senza soluzione di continuità e un uragano di suoni investe i nostri corpi, alla mercé delle note scagliate in tutte le direzioni dagli ampli.
Vorrei riposare 30 secondi, ma sono stato risucchiato nel girone dantesco del pogo: non è facile uscirne e non sono affatto sicuro di volerlo.
Così parte subito un’altra schitarrata, una rullata e, nella musica, ritrovo slancio e nuova linfa. Nel pit siamo tutti pervasi da una sana “rabbia”.

Sono molto vicino al palco e li guardo bene in faccia prima di tornare - volente o nolente - al pogo. De La Rocha non ha più i dreadlocks, ma una criniera leonina riccia. Si muove come fosse posseduto: salta, urla, rappa e a volte improvvisa rime in apnea. Sono lieto di constatare che la sua voce non ha perso smalto in questi anni.
Morello, cappellino con visiera calata sugl’occhi, usa sempre (tra le altre) la Stratocaster celeste customizzata, che riproduce in bella mostra il simbolo della falce e martello.
Ricopre con energia e disinvoltura il suo ruolo: osservandolo, pensare di poter suonare così, non risulta difficile. Lui scruta il pubblico, suona forte, manda occhiate d’intesa ai compagni e li conduce per mano fino in fondo.
Commerford, l’unico dei quattro con tratti somatici caucasici, resta a torso nudo sfoggiando un fisico statuario ricoperto di soli tattoos. Martella il suo basso e concede la sua voce su People Of The Sun per dare enfasi al ritornello.
Wilk sembra godere, rispetto al passato, di uno spazio più ampio per mostrare tutta la sua cattiveria. Tortura le pelli dei tamburi pestando secco e potente su tutti (proprio tutti) i brani e come da copione, percuote il campanaccio su Freedom confluendole un’aria vagamente indio.
Non sembrano invecchiati, ma più maturi, sicuramente più consapevoli del peso del loro passato e dell’importanza delle loro ambasciate per il futuro. Del resto nello scenario musicale, dalla pubblicazione di Rage Against The Machine (album ad alto valore scioccante per proposte musicali e copertina politically uncorrect), nessuno è stato capace di offrire novità di altrettanta levatura. Messaggio e musica meticcia, hanno generato un connubio ancora oggi difficilmente imitabile.
E non posso credere che questa reunion non abbia basi solide su cui poggiare. Il suono degli strumenti e la voce del singer s’incastrano perfettamente. Ritroviamo tutto così com’era. La qualità del gruppo è intatta ed è seconda solo al loro immutato impegno sociale. Già il messaggio. Per non creare equivoci - qualora ce ne fosse bisogno - illuminata solo da una luce rossa, sullo sfondo del palcoscenico viene lentamente issata un’enorme bandiera a fare da scenografia definitiva. Raffigura la stella rossa su fondo nero: il vessillo dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale). Sorge dopo i primi brani alle spalle di Wilk, a tutto stage, sulle note dell’inno dell’Internazionale Socialista (nella versione eseguita dall’ormai disciolto esercito dell’Armata Rossa). Un’immediata orgia di pugni punta verso il cielo di Modena. No, non si tratta del congresso di partito, ma tutti quei ragazzi (giovani e giovanissimi) in posa e con indosso la maglia del Che, ordinano un pensiero: nessuno è riuscito a spazzare via quasi 2 secoli di storia, non ancora. Non ci hanno cancellato dalla faccia della terra. La reunion dei RATM nasce anche da questo convincimento. Si fanno portavoce nella musica, di chi non ha più una rappresentanza politica adeguata. Il loro è un pubblico che trascende il mero apprezzamento musicale ed approda ad uno stadio ulteriore. Il legame è concettuale, oserei dire ideologico. Non c’è pietà per gl’internati di Guantanamo? Beh, non c’è ne un po’ neanche per la brutale amministrazione americana: “Le strade sono vostre” dice Zack, “bisogna combattere per riprenderle”. E lo afferma sputando ogni singola parola nel microfono, tanto che ogni sillaba pare un vaffanculo indirizzato al Sistema. Del resto, “Anger is a gift!”, urla in Freedom (dedicata originariamente a Leonard Peltier, consacrata oggi a tutti i martiri di ogni discriminazione, da Mumia Abu-Jamal in poi). Compresso come un trancio di tonno in scatola, mi risulta agevole ascoltare decine di voci, attorno a me, dalle diverse inflessioni. Per la prima volta, conto il più eterogeneo campionario di popolazione italiana (e non solo) tutto chiuso in un campo di calcio ad esultare per la stessa squadra. Vedo punk del sud, anarchici del centro, vicentini movimentisti di “No Dal Molin”, ragazzi dei centri sociali, una “afroitaliana”, diversi stranieri ed io, risalito lungo gli Appennini per 700 km. Siamo tutti pronti - finalmente - a parlare la stessa lingua. Siamo tutti pelle a pelle.

Il servizio d’ordine, intanto, svolge la sua incombenza in maniera decente (anche questa è una novità). In una calca del genere, infatti, potrebbe “capitare” di beccare qualcuno alticcio o che il pogo ammacchi qualcuno o che semplicemente manchi l’aria. Con sincero apprezzamento, ho potuto osservare il valido lavoro della security: attento ma discreto, mai troppo indifferente, mai troppo invadente. Ne testo il valido supporto durante Sleep Now In The Fire, in cui il pogo si fa pesante. Per un attimo un De La Rocha divertente, fa il verso a se stesso. Veste, infatti, la faccia da imbonitore e riprende l’ipocrita sorriso esibito nell’omonimo video a suo tempo diretto da Michael Moore (lo stesso regista che dirigerà “Bowling a Columbine”, “Fahrenheit 9/11” e “Sicko”). Il pezzo è una vera frustata rock. Sublime.
La band dimostra spiccate qualità “reinterpretative” quando esegue un’arrabbiata (guarda caso) cover di Renegades Of Funk. Vero è che sono noti per le liriche taglienti, ma i ragazzi ci danno dentro anche per farci ballare. Ripropongono il pezzo di Africa Bambaataa in maniera identica alla versione incisa per Renegades, album d’inizio millenio, l’ultimo – ad oggi – registrato in sala d’incisione.
Su Wake Up, Know Your Enemy e l’inno Killing in the Name, musicisti e pubblico replicano quel feedback di energia ed emozioni, tipico di ogni concerto che si rispetti. Per la tappa italiana di questo reunion tour dei Rage, si è reiterato quel rito celebrativo in nome del più sincero spirito Rock’n’Roll che - nonostante le profuse certificazioni di morte - dal periodo hippy ad oggi, non ha ancora trovato la sua naturale scadenza.
La setlist, complice l’eccitazione provocata dall’avvenimento, non sono in grado di elencarla correttamente. Hanno suonato i loro pezzi migliori, quelli più efficaci. Oltre quelli già citati, Bulls On Parade e People Of The Sun (tratte da “Evil Empire”), Know Your Enemy, Bullet In The Head e Wake Up (tratte da “Rage Against The Machine”), Calm Like A Bomb e Born Of Broken Man (da “The Battle Of Los Angeles”). Nessun pezzo inedito e, pare, ancora nessun nuovo album in lavorazione.
Menzione speciale merita l’esecuzione della splendida Testify che nell’introduzione, con il suo incedere di chitarra dall’eco metallico, ha proiettato l’intera platea dentro un’officina metallurgica. Le sue liriche sono immagini a tinte forti che inchiodano i media al servizio del Sistema (anziché dell’informazione) ricordando con perfida lucidità che: Who controls the past now controls the future (Chi controlla il passato, adesso, controlla il futuro) Who controls the present now controls the past (Chi controlla il presente, adesso, controlla il passato) Who controls the past now controls the future (Chi controlla il passato, adesso, controlla il futuro). E chiedendosi (retoricamente): Who controls the present now? (Chi controlla il presente, adesso?).

Quel capolavoro di Guerrilla Radio, inizia come se fosse una marcia militare, esplode in un vortice di suoni overdrive e si assesta su di un ritmo sincopato che accompagna il tipico rapping di De La Rocha:
Deve cominciare in qualche luogo.
Deve cominciare un momento.
Quale miglior posto?
Quale miglior momento?

e termina con un amabile anatema, “All hell can't stop us now”, mentre impazza un ritmo in piena tempesta.
L’esecuzione si conclude al termine di 90 infuocati minuti: difficile credere che si potesse fare di più. Quantità e qualità, del resto, non sempre convivono.
Sulla mitica Killing In the Name, tutti, all’unisono, ci sostituiamo al cantante nell’urlare (con quanto fiato è rimasto nei polmoni) una promessa che sa di minaccia: Fuck you, I won't do what you tell me!
Devastante. E memorabile.

(Resoconto fotografico qui)


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giovedì 16 ottobre 2008

Breve storia di morti, finti morti e vivi ignorati come morti

22 novembre 2005, Sovereign Bank Arena di Trenton, NJ: ultima tappa del Devils & Dust tour.
Il concerto si apre con una dedica di Springsteen ad un musicista scomparso qualche giorno prima: “This is for Link Wray!”.
All’esclamazione, segue l’esecuzione di un brano con tanto di chitarrone elettrico e distorsore, che s’insinua in un tour ad alto tasso di composizioni acustiche: è una Gretsch rosso fuoco, infatti, a mandare accordi carichi di effetto eco in sala.

Il brano proposto è “Rumble”, non è un granché ma è un pezzo strumentale di grande valore storico poichè ha reso celebre (proprio per l’utilizzo di innovativi effetti per chitarra) ai primordi del R’n’R, lo stile di Link Wray.
Il buon Link ha fatto la sua vita, ha avuto i suoi successi e attualmente, gli vengono riconosciuti i giusti meriti per l’apprezzabile carriera ottenuta in ambito musicale.

Ma che c’entra Bruce con Fred Lincoln “Link” Wray?
La dipartita e la relativa dedica del Nostro al chitarrista inventore del power chord fanno parte del medesimo “ponte” per introdurre un dimenticato (anche se vivo) personaggio.
Sul finire dei ’70 Link Wray incide con Robert Gordon, un misconosciuto cantante di rockabilly, due album divisi da un breve margine temporale: “Robert Gordon (with Link Wray)” e “Fresh Fish Special”.
Robert Gordon è un tipo fotogenico, con la faccia da bravo ragazzo, con l’acconciatura dal ciuffo esasperato e con la voce affine a quella di Elvis Presley tanto che, Bruce stesso, afferma di riconoscere una stretta somiglianza nel cantato dei due.
Wray, come già detto, muove i primi passi sulla scena durante l’esplosione del Rock and Roll.
E’ la passione per lo stesso genere musicale, dunque, a portare i due a collaborare nelle suddette produzioni con l’intento di riportare in auge un genere ormai in secondo piano da un pezzo.
Nel primo LP viene riproposta la “Summertime Blues” di Eddie Cochrane (come noto, eseguita a più riprese anche da Mr. Springsteen nel corso della sua carriera) e nel secondo l’inedita "Fire".
Bruce conosce Robert tramite Garry Tallent (grande fan di Rock’n’Roll anni ’50).
Fire, il pezzo originariamente scritto da Bruce per tale Elvis Presley, viene registrato con Springsteen (non presente nei credits) al pianoforte. A tal proposito è illuminante quanto afferma Gordon circa la presenza di Springsteen in sala d’incisione: “Credo volesse vedere come lavoravamo in studio” (Uhmm, con una convinzione come questa, avranno inciso in assoluta serenità!!! ndr).
Se la memoria non m’inganna, Bruce dirà che ha concesso a Gordon l’utilizzo della composizione perché si è attardato a proporla a “The King” ufficialmente morto nel ’77 (in realtà, vivo e vegeto, tutt’oggi attivo sotto mentite spoglie, on stage ogni venerdì sera in una località della Puglia centrosettentrionale).
Questi due album - a mio avviso, da avere - ristampati qualche mese fa in CD (2 LP in 1 CD), sono stracarichi di R’n’R delle origini.

Lo stesso Rock affermatosi attraverso centinaia di hits “one shot” o traghettato fino ai giorni nostri da intramontabili condottieri (Jerry Lee Lewis, non a caso, “The Last Man Standing”), celebrato da pellicole americane che hanno condizionato l’immaginario collettivo (con quei ragazzi dai capelli lucidi immobilizzati da prodigi della cosmesi) e da immagini di gigantesche auto stipate nei drive-in. Lo stesso Rock, in definitiva, padre della musica di Bruce Springsteen & The E Street Band.
Gordon sembra un tipo capace ma inseguito dalla sfortuna. A pochi mesi dalla pubblicazione della sua interpretazione, sul mercato si affaccia prepotentemente un’altra versione di Fire, eseguita dalle Pointer Sister: quest’ultima sarà il più grosso successo commerciale del gruppo femminile che spazzerà la versione di Gordon dalle classifiche e dai passaggi radiofonici. Come in questa circostanza, anche in seguito, la carriera di Robert Gordon, sarà costellata di promesse mai mantenute. Sarà più volte pronto a sfondare le porte di accesso per un pubblico più vasto, ma per un motivo o per un altro, non sarà capace di farlo.
Azzardando un paragone, nella finzione testuale di Fire, i baci della protagonista “bruciano/ ma il tuo cuore resta gelido”, nella quotidiana realtà è Gordon ad infiammare i pezzi con la sua interpretazione ma a lasciare indifferenti gli ascoltatori.
Oggi pare un vecchietto che si porta male (come se non bastasse ha avuto problemi con la dipendenza dalla droga) i suoi 61 anni e tira a campare facendo ancora tour per il mondo in posti piccolissimi (equiparabili a bar). Della sua faccia pulita, del suo fisico asciutto e della formidabile chioma dei tempi passati è rimasto ben poco, ma la sua voce baritonale si mantiene ancora oggi più o meno attraente.
Un bel pezzo di storia da riesumare, insomma, perché Robert non è morto, ma è come se lo fosse. Pure Springsteen pare aver dimenticato Gordon.
Tra tanti guests apparsi durante il Magic Tour, resta il rammarico di non aver assistito ad un loro duetto proprio sulle note di Fire. L’unica volta che Bruce Springsteen, Robert Gordon e anche Link Wray hanno suonato insieme dal vivo, è stato il 2 dicembre del 1977 (NYU Loeb Student Center di New York City).

Il giorno prima i tre si erano riuniti negli studi Plaza Sound di New York, per registrare la versione di Fire finita su “Fresh Fish Special”.
Il giorno seguente l’incisione del brano, Bruce si presenta a sorpresa al concerto di Gordon e Wray per una fantastica quanto ineguagliata versione di Heartbreak Hotel di Elvis e, se non lo sapessi con certezza, direi che a dividere il microfono con Bruce, quel giorno c’era proprio Presley.
Ah, dimenticavo!
Nella stessa serata, a Trenton, il body builder ha eseguito Rumble e Fire: che coincidenza!

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mercoledì 15 ottobre 2008

Don’t drink water, drink wine!

Il 21 ottobre Ani DiFranco terrà un concerto al Rolling Stone di Milano.
Purtroppo non potrò assistervi e già ipotizzo (con la little folksinger on stage, nulla è ordinario) che quanto andrà in scena sarà sensazionale.
La 38enne cantautrice di Buffalo è davvero unica.
Non mi credete? Parlo per esperienza personale, mica per sentito dire!
Ho visto Ani in tour 4 anni fa.
Alcuni ricordi, legati a quell'entusiasmante concerto, sono ancora vivi nella mia mente.
Eccoli.

14 novembre 2004. Piove copiosamente sull’edificio che, generosamente, chiamerò palasport.
Il PalaMartino, una palestra della periferia barese, è sold out per il concerto di Ani DiFranco.
Un’inattesa ovazione accoglie il suo ingresso sul palco e lei, allibita, mima un balzo indietro, come travolta da un’onda d’urto.
L’esibizione è subito carica di pathos: Ani batte le corde della chitarra, colpendo anche, quelle vibranti nel profondo di ognuno di noi.
Non tutti afferrano il senso dei suoi testi, ma lei è in grado di farsi capire; con il tono di voce ora solare, ora mesto, con l’efficace mimica facciale, con il sincopato suono delle chitarre acustiche. Conduce oltre l’ostacolo, oltre il significato della tormentata storia d’amore che narra, della quotidiana ingiustizia sociale, racconta la ricerca di semplici desideri.
Qualche luce illumina la sua figura minuta e quella del jazzista Todd Sickafoose che, con il suo contrabbasso, la segue in questo tour: la sobria scenografia enfatizza la performance del duo.

La grintosa cantautrice, diverte inaspettatamente quando racconta, in uno stentato italiano, di essere sotto gli “effetti” del caffè espresso e del vino - a suo dire - le uniche bevande esistenti in Italia. In proposito, infatti, confida di non bere altro qui, e ride ricordando il gran mal di testa che segue ogni “degustazione”. Durante una pausa, prende la sua bottiglietta d’acqua per mandar giù un sorso. Acqua, qui? Sarà mica di contrabbando!? A quel punto, memore del pettegolezzo precedente, le suggerisco (in realtà, sbraito dalla seconda fila): “Don’t drink water, drink wine!”. Sul volto di Ani si illumina un ampio sorriso e subito risponde qualcosa che (maledizione!) si perde tra l’ilarità generale.
Ci lascia con la splendida “32 Flavors” eseguita insieme a Gail Ann Dorsey (tour opener) anche lei con chitarra acustica e al controcanto (ecco una recente versione del brano). “Socchiudi gli occhi” sussurra “e guarda più da vicino”. Sento di dover ascoltare il suo consiglio: mi scruto dentro e provo una grande soddisfazione. Ani DiFranco ha reso memorabile la fredda serata di un giorno qualunque in un sobborgo del sud, ed io in cambio, le ho strappato un sorriso.


- Setlist -
Ain't That The Way
Educated Guess
Garden Of Simple
Half-Assed
Swim
Here For Now
So What
Lag Time
Up Up Up Up Up Up
Little Plastic Castle
Dilate
Phase
Welcome to:
Nicotine
Shameless
Gravel
32Flavors

Ho reso l'idea?
No? Allora vuol dire che proprio non potete fare a meno di un supporto audio.
In tal caso, è indispensabile correre ai ripari con l'acquisizione del concerto registrato a Roma la sera dopo il "live in Bari".
Fa parte delle uscite denominate "Official Bootleg Series" (in pieno stile Bob Dylan).
Ovviamente, caldeggio l'acquisto.


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venerdì 10 ottobre 2008

Una rock band che fa tremare la terra


"Jam" ottima rivista di musica principalmente Rock (of course!) ha pubblicato sul numero 151 di settembre 2008, una mia recensione del concerto di Milano di Bruce Springsteen & The E Street Band.
Sono lusingato: il mio punto di vista è stato scelto e pubblicato su quello che ritengo essere il magazine più competente nel settore.


La mia soddisfazione, però, è parziale, perché parziale è il racconto pubblicato dal mensile. L'originale era evidentemente prolisso e avrebbe occupato troppo spazio alla foliazione del giornale, rubando il posto ad altre recensioni.

La redazione del giornale ha dunque deciso di "compendiarlo", riportando solo alcune considerazioni personali sull'evento. Riflessioni che decontestualizzate, lasciano trasparire la misera figura di hard core fan puerile che ama Springsteen incondizionatamente.

Nella mia narrazione, invece, credo di aver fatto ben altro esame, creando anche (ritengo) un importante filo conduttore che lega l'anno di grazia 1978 con l'anno in corso.
Fortunatamente c'è internet!
A rendere giustizia alla mia recensione ci ha pensato Gianluca Brovelli, pubblicando integralmente il testo sulla mitica badlands.it, webzine da lui creata e gestita. Potete visualizzarla cliccando sul logo qui sotto.

Altro importante spazio all'articolo è stato concesso dal sito Land Of Hope And Dreams. Se poi non volete spostarVi da questo blog, beh, di seguito c'è la mia testimonianza.

Ho fatto del mio meglio e spero piaccia!



Bruce Springsteen and The E Street Band
Milano, 25 giugno 2008 - Stadio Giuseppe Meazza


Nel 1978 il ventinovenne Springsteen pubblica Darkness On The Edge Of Town (Oscurità ai margini della città), l’album più musicalmente duro e liricamente aspro della sua intera produzione.

Il relativo tour è per antonomasia “il tour” di Bruce Springsteen and The E Street Band, quello che conferma e amplia il parere a lui riservato, da critica e pubblico, di formidabile performer. E’ il metro di giudizio al quale rapportare tutte le successive avventure, è la tournée meglio riuscita: più delle intime esibizioni della prima metà anni ’70, più degli acclamati live dell’84-85 riconducibili alle mastodontiche vendite di Born In The U.S.A.
E’ l’apogeo della carriera concertistica del musicista del New Jersey, un primato di qualità del quale andare fieri ma nel contempo, un pesante fardello da sostenere.
Salto temporale di tre decenni (anni in cui è successo di tutto di più nella vita artistica e non, del cantautore). Nel 2008 Bruce, è insieme alla sua “Leggendaria” Band in giro per Nord America ed Europa con il “Magic Tour”.
Il 25 giugno, l’agenda del Boss dice: Milan, Italy.
Quella allo Stadio Giuseppe Meazza è l’unica tappa italiana dell’anno ed è sold-out da svariati mesi. In teoria si promuove ancora l’ultimo lavoro, quel “Magic”, dato alle stampe nell’ottobre 2007, che tanti mal di pancia ha provocato ai fans per il suo approccio musicalmente troppo “leggero”; nella pratica, invece, è proprio con l’album Darkness On The Edge Of Town e l’omonimo tour che, trent’anni dopo, Springsteen deve fare i conti. Lo si capisce scoprendo la setlist.


Milano brucia, lo stadio è un dannato forno a cielo aperto. “Ciao Milano” esordisce “fa abastansza caldou?”. Bruce, ci sono almeno 35 gradi, che domande fai!? “Ah, ci scorriamo (surriscaldiamo??) angòra dippiù!”. Mitico! Evvai col Rock And Roll!
Si parte con un’appropriata Summertime Blues e sono due minuti e mezzo di goduria. Pura. Segue a ruota (“Andiamo Milano!”) la festosa Out In The Street e già i cori tra palco e platea si mescolano in un reciproco idillio, mentre la semplice ma turbolenta Radio Nowhere, completa un grintoso trittico di apertura.
Descrivere quello che vedo on stage, esprimere i sentimenti che provo, è davvero difficile. Cercare di delineare l’operato di Springsteen, in generale, è per me compito arduo. Ci provo riportando una sua frase. Poche e illuminanti parole che solo tre anni fa il bodybuilder del New Jersey, pronunciava per gli U2 nel discorso introduttivo alla R’n’R Hall Of Fame: “Una grande Rock Band aspira a far tremare la terra, vuole far fuoco e fiamme, pretende che il cielo si apra e che Dio faccia capolino. E’ imbarazzante avere simili aspettative quando si parla di musica, ma a volte è così che gira”. Wow! Direi che questo è un magnifico tributo all’arte del quartetto irlandese ma è, in primis, la raffigurazione del proprio lavoro! Ne sono ancora più convinto, dopo aver vissuto le tre ore dello show milanese. Bruce è il solito animale da palcoscenico, tosto come nessun altro cinquantottenne. Dei suoi musicisti, su tutti, Nils Lofgren (chitarra) e Max Weimberg (batteria) sembrano ancora fisicamente tonici e concentrati in ogni momento, tanto da supportare il Capo a dovere. Professionalmente ineccepibili, ma statici per contratto, i soliti Roy Bittan (pianoforte e tastiere) e Garry Tallent (chitarra basso). Clarence “Big Man” Clemons, purtroppo, è ormai da tempo il tallone di Achille del gruppo. Fisicamente affaticato, si porta dietro qualche anno e qualche chilo più degli altri: il suo sassofono ruggisce solo a tratti. Steve Van Zandt (il Miami Steve della prima ora, o Little Steven da solista o Silvio Dante nei Sopranos) non è in palla: nulla di grave, può succedere. Si fa notare quando ingaggia un bel duello di chitarra con il suo datore di lavoro sulla sempre fresca “Prove It All Night” e s’impegna, quanto basta, per i duetti vocali. Dietro l’organo Hammond alla destra di Bruce, adesso siede Charles Giordano (con Springsteen già nella Sessions Band). Non c’è Danny Federici (“Now you see him, now you don't! Danny "Phantom" Federici!”), compianto membro fondatore della E Street Band, prematuramente scomparso nell’aprile scorso. Soozie Tyrell (violino, cori) è della partita, anche se nulla aggiunge alla musica e alla storia della band. Patti “Signora Springsteen” Scialfa è assente. Siamo salvi! Non siamo costretti ad ingollare litri di amaro (o meglio, olio di ricino) dopo il dolce. Scampiamo a una serie di coretti fuori luogo e vocalizzi raccapriccianti. Anche Bruce se la gode per questa assenza. Non fa prigioniere: gioca a fare il cascamorto con tutte le ragazze della prima fila e - che resti fra noi - ne bacia qualcuna.
Vengono eseguiti più brani tratti da Darkness che da Magic e si pesca a piene mani dal repertorio del Darkness Tour. Potrebbe anche essere una mossa suggerita da strategie di marketing: non vi sono conferme ufficiali, ma da tempo si vocifera di una ormai prossima pubblicazione celebrativa di album e tour del ’78. Indipendentemente dalle influenze promozionali, ad onor del vero, il live act italiano è un concerto di spessore.
Sono sei su dieci le perle selezionate dall’album degli anni ‘70. Su tutte svetta una sentita esecuzione di Darkness On The Edge Of Town (il brano dell’omonimo album), caratterizzata da una strepitosa intensità; il verso “Weel if she wants to see me” dopo il primo - musicalmente slowly - minuto introduttivo, squarcia la tensione con uno scoppio di accordi aperti e potenti. La già citata Prove It All Night, “chitarrosa” ed orecchiabile. The Promised Land, sempre presente e passionale. La travolgente Candy’s Room, che mi è sempre parsa una sceneggiatura dello Scorsese d’annata. La malinconica Racing In The Street, mai prima d’ora eseguita in Italia insieme alla E Street, con Roy in grande spolvero. Badlands, strepitosa sferzata di energia, con quello “sputo in faccia alle terre difficili” ed un vaffanculo scagliato contro le convenzioni perchè “non è peccato essere felici”. E poi ancora, la romantica Because The Night (una tra le molte outtakes di lusso di springsteeniana produzione) marchiata a fuoco da un assolo di chitarra di Nils capace di far impallidire pure Yngwie Malmsteen. Altri pezzi, poi, riconducono a quello che sembra il vero magic tour, quello di trent’anni or sono. Summertime Blues la cover di Eddie Cochran che spesso apriva i concerti del 1978, il Detroit Medley e Twist And Shout presenze costanti nelle scalette di allora e una Spirit In The Night (tratta dall’LP d’esordio “Greetings From Asbury Park, N.J.”) eseguita in mezzo al pubblico, più o meno come al tempo che fu. La novità principale di questo tour è la canzone su richiesta. Quella che prima era solo una timida quanto vana supplica del pubblico, adesso è una consolidata e ben accetta abitudine. I titoli più disparati campeggiano nel pit - lo spazio circoscritto sotto il palco appannaggio degli hard fans - e in tutto lo stadio su fogli, cartoncini, cartelli di ogni tipo e striscioni sugli spalti (quello ov’è indicato “Detroit Medley” viene notato da Steve che lo impone all’attenzione del Boss).
Bruce è accomodante come mai prima d’ora, tanto che accetta di suonare una rara None But The Brave (outtake di Born In The U.S.A.), Hungry Heart (tratta dal doppio LP “The River”) cantata da tutto lo stadio e la reinterpretazione, sul finire del concerto, del già menzionato Detroit Medley, vale a dire l’insieme delle covers Devil With The Blue Dress/ Good Golly Miss Molly/ C.C. Rider/ Jenny Take A Ride.
Ultimato lo spazio jukebox, degna di nota risulta la curiosa interpretazione di “I’m On Fire”. La canta sprofondato su una sedia con lo sguardo fisso nel vuoto, nel mezzo della passerella centrale delle tre che dal palco, terminano in mezzo alle prime file.


Altra novità di rilievo è data dalle riprese proiettate su due, finalmente, veri megaschermi posti ai lati dello stage. Bruce si presta a primi piani, recita nell’obbiettivo, si fa seguire ovunque, quasi si abbandona sulle prime file, porge acqua a chi può, stringe mani, ride, accetta di essere toccato, sbatacchiato: tutti cercano il contatto con il rocker. Sospetto, ad hoc, l’assemblaggio di un home video.
E’ più lenta la fase centrale dello show (per es. Darlington County, Livin' In The Future e, maledizione, una spenta The Rising) ma, il calo è fisiologico. In un caldo opprimente, si tira il fiato per l’ultimo atto. Finale che riserva un turbinio di emozioni con l’immarcescibile inno Born To Run, la sempre gioiosa Rosalita ed una Bobby Jean che sembra essere una dedica di addio all’intero pubblico più che al protagonista della canzone (in origine Steve Van Zant). L’hit single Dancing In The Dark, la recente American Land e l’imprevista beatlesiana Twist And Shout (tour premiere) chiudono il sipario ed un ponte ideologico con il passato (nell’85 questo era il penultimo brano nel concerto d’esordio in Italia). Alza al cielo la sua Telecaster, il nostro sciamano, “Vi amo!”, urla più volte, e scompare nel backstage.

Non conosco i criteri per stilare una classifica e affermare con certezza matematica se la E Street Band, è o no, la migliore Rock Band del pianeta. Per me neanche è una rock band. Quelle facce sono in casa mia da troppi anni, quei nomi sono sulle mie labbra innumerevoli volte, quelle musiche sono nella mia mente per ore e ore al giorno, quelle canzoni sono nel mio cuore da sempre. Bruce, Steve, Danny, Max, Garry, Roy, Nils e Clarence, sono ormai, più che una band, più che una foto da tenere appesa al muro: fanno parte della mia vita. Vengo dal sud, e i concerti (salvo rare occasioni) si svolgono tutti al nord. Ma mai - in quindici anni - per assistere ad uno dei tanti concerti visti fino ad ora, mi è pesato risalire la penisola, macinare chilometri su chilometri, spendere uno sproposito, rimanere in coda davanti ai cancelli “fermo come un sasso a mezzanotte” per ore, ore, ore ed ancora ore sotto ogni tipo di cielo. Appagato, saziato e anzi spiritualmente arricchito, ecco cosa ho provato dopo aver saltellato, ballato e cantato a pieni polmoni. Non sarei in grado di rifarlo per nessun altro.


Le prodezze della E Street Band sono state da tempo consegnate alla storia della musica Rock. Difficile poter scrivere un nuovo capitolo da aggiungere ad un romanzo così corposo. Ecco perché credo che Springsteen possa e debba riunire in futuro solo in sporadiche occasioni i suoi “fratelli di sangue” e, terminato questo tour, perseguire altri obbiettivi. Diversamente correrebbe il rischio di banalizzare la sua epopea.
E’ questo, dunque, il momento propizio per consegnare al mito “questi devastanti, scioccanti, travolgenti, terremotanti, sussultanti, elettrizzanti musicisti scopatori tutto-sesso, che prendono il Viagra, fanno strillare le signore, fanno piangere i signori: la leggendaria, EEE! STREEET! BAAAAAAND!”.


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